Qualche giorno fa ho ne
ho avuto la conferma: non sono così pochi a pensare che sia strana,
proprio strana la questione dei costumi. E non mi riferisco alle
fantasie 2013 di bikini, alle brasiliane, alle fasce o alla lotta tra
gli estimatori di boxer e quelli di mutande (alzi la mano chi
preferisce le seconde e poi la abbassi subito e vada a nascondersi
per la vergogna).
Per 345 giorni all'anno
frequentiamo, vediamo delle persone vestite. Andiamo al supermercato:
persone vestite. In ufficio: persone vestite. Al cinema: vestite. In
pizzeria: vestite. Per strada: vestite. Pensate a un luogo qualsiasi
che non sia la vostra casa e il vostro letto e ripetete con me:
“vestite”. Addirittura quando in uno qualsiasi di questi posti
vediamo qualcuno (di sesso femminile) con meno abiti addosso di
quanto non precetti il nostro costume sociale storciamo il naso: “Ma
hai visto che scollatura ha quella?”, “E quella? Avrebbe fatto
prima a non metterla proprio, la gonna!”. Cioè le chiamiamo
“quelle”; nemmeno un sostantivo, usiamo un pronome dimostrativo
come se volessimo tenere le distanze da simili individui che fanno la
pernacchia alla decenza. Ecco a che punto siamo.
In questo post non si
parla di invidia, badate bene. Certo, quando vedo una che si porta a
spasso una quinta quasi come fosse un oggetto estraneo al suo corpo,
posso pensare che davvero se esiste un dio o qualcuno che ha deciso
“metto un po' di questo, un po' di quest'altro”, ecco con uno di
quei “po'” avrebbe potuto fare delle distribuzioni più eque tra
me e quell'altra (tanto per tornare al dimostrativo), quella tizia
(sostantivo ma usato con accezione spregiativa), mia vicina di
asciugamano. Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Mettiamo
questa tizia, va bene questa donna, questa bella e prosperosa donna
che sta a prendere il sole sulla spiaggia in due pezzi, un tendaggio
che copra tutto quel “bendidìo”; mettiamo che incontri qualcuno,
quante volte capita: un collega, un amico, un'amica, un conoscente,
il postino, il commesso del supermercato in cui va sempre, che ne so.
Ovvero due che si vedono sempre vestiti perché vogliono vedersi
tali, perché nessun istinto sessuale o sentimentale li induce a
vedersi diversamente, improvvisamente si vedono in mutande.
Peggio (o meglio, a
seconda di come la si pensa a riguardo) va a chi è single ma un uomo
o una donna “bersaglio” l'hanno già: c'è qualcuno (di sesso
maschile, ovvio) che si domanda perché ci si affatichi tanto per
undici mesi a corteggiare una se poi basta aspettare agosto per
vederla svestita. E chiaro poi che una non la vuoi vedere come mamma
l'ha fatta per dirle “ah, quindi anche tu hai la pallina
nell'ombelico!” però non è sbagliato pensare che in estate ci sia
una strana accelerazione, se non altro visiva, nei rapporti con le
persone.
E gli incontri estivi?
Quelli che nascono sulla spiaggia: ci avete mai pensato? Le domande
sono quelle di sempre – lavoro, interessi, hobby, opinioni – solo
che mentre sei intento a spiegare turni e mansioni, a raccontare
aneddoti o a spiegare la tua ricetta per sconfiggere la
disoccupazione giovanile hai semplicemente le chiappe al vento.
La questione si capovolge
a vacanze finite. Siete a casa, state per infilare un abito e squilla
il telefono ma il telefono è in soggiorno e in soggiorno ci sono le
finestre aperte. Cosa fate, non rispondete? Giammai! Così, in un
attimo la trasformazione: non siete più quelle ragazze, quelle donne
che fanno un abbonamento in palestra solo per avere una tessera in
più da mettere nel portafoglio ma siete una delle sorelle di “Occhi
di gatto”; scarabocchiate una pianta, un piano di evacuazione della
casa sulla carta igienica, con tanto di vie di fuga e mappa degli
ostacoli, sgusciate tra i mobili, improvvisate il passo del giaguaro
sul pavimento, afferrate uno strofinaccio, un cuscino, il lembo di
una tenda e con cui fasciarvi, bardarvi in un improvvisato shador,
pur di non farvi vedere “nude”. E così continuo a non capire.
Continuo a non capire e a preferire l'inverno!
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