domenica 19 giugno 2011

Pitti, secondo me










Pitti - giorno 4: Il capolinea

Siamo arrivati al capolinea. Il Pitti tour è finito e con “lui” anche le pagine del mio diario a puntate. Come si fa alla fine di un viaggio che ti ha portato lontano (da cosa, chi e dove non ha importanza), è arrivata l'ora dei bilanci.

È stato un inferno. Capire dove mi trovassi, prima di tutto. Capire perché mi trovassi lì. Infine, capire perché gli altri si trovassero lì. Quella schiera infinita di pittini che, finché non li ho visti tutti insieme, pensavo quasi non esistessero per davvero, fossero una sorta di leggenda metropolitana; come dire che nelle fogne di New York ci sono gli alligatori. Poi il raduno fiorentino e la scoperta scientifico-antropologica: esistono. E sono pure tanti.

Sparsi per la “giungla urbana” si mimetizzano tra le infinite specie di umanoidi che la popolano. Bisogna osservarli in cattività per rendersi conto che sono a migliaia. Si muovono in piccoli gruppi, di due o tre individui, hanno una loro lingua, le loro abitudini, come quella di flettere di continuo la testa in alto e in basso: il loro modo di individuare altri simili. Alcuni sono raffinati, altri eccentrici. Tutti sono belli e sanno di esserlo. Dettano loro il ritmo della moda, decidono cosa è in e cosa è out. Non per loro, sia chiaro, ma per i comuni mortali che di Pitti hanno potuto solamente vedere l'ingresso. I pittini, infatti, sono sempre avanti di un anno rispetto a chi sta fuori: vivono nel 2011 ma già pensano a cosa indosseranno nell'estate del 2012. Interpretano alla perfezione la società in cui ci troviamo: ne sono lo specchio, come ho scritto un post fa.

È stata dura. Alla fine, però, è stato anche costruttivo scoprire questo strano mondo tutto paillette e anglicismi. Costruttivo e a tratti divertente fare come lo studioso che se ne sta quatto quatto dietro una roccia per assistere alle fasi di corteggiamento degli scimpanzé. 




Dopo un viaggio lungo e faticoso però la sensazione più bella è tornare a casa.

venerdì 17 giugno 2011

Pitti - giorno 3: Meglio un giorno da leone o cento da pecora?

La moda è lo specchio della società. Non solo perché è lì che ci guardiamo ogni mattina prima di uscire per sincerarci di essere presentabili, ma perché è uno di quei settori (come tutti quelli nei quali girano tanti soldi, d'altronde) in cui il principio “poche persone a decidere per molte” non solo vale, ma vale prima di tutti gli altri. Pitti ne è l'esempio lampante: è il grande contenitore delle tendenze che andranno di moda per la stagione primavera-estate 2012. Gli uomini di tutto il mondo, se vorranno essere glamour, dovranno vestire secondo i dettami decisi in sole quattro giornate. Non c'è solo Firenze, direte voi. È vero: c'è la settimana della moda di Roma, Parigi, Milano, New York; ma il punto è un altro: sono sempre quelle 100 maison a decidere per tutti. 100 maison per 6.891.000.000 di corpi. 100 maison a dare il la a tutte le collezioni che l'anno prossimo affolleranno le boutique così come i negozi di capi “usa e getta” come Zara ed H&M.

Non sono contro la moda, sia chiaro. Chi mi conosce, conosce anche il mio guardaroba. Sono contro le dittature, però. Nel Sabatini-Coletti si definisce dittatura quell'“ordinamento politico autoritario in cui una sola persona, o un collegio di più persone, accentra in sé tutti i poteri” e, per estensione, “l'imposizione della propria volontà, delle proprie idee, dei propri interessi”.

Se io ora esco da casa e do un'occhiata a un paio di vetrine, che trovo? Pantaloni a vita alta, shorts, vestiti a fiori, camicie country, abiti e giacche modello Chanel. E se non dovesse piacermi tutta questa roba? Se volessi mettere su dei jeans che non siano stretch e mi coprano tutto il sedere; se volessi un armadio pieno di pantaloni a zampa di elefante? Potrei volerli. Ma non comprarli. Perché c'è qualcuno, "i pochi", che cercano di imporre le proprie idee "ai molti" che, non solo non hanno alternativa, ma devono pure essere additati come pecore. 

giovedì 16 giugno 2011

Pitti - giorno 2: Ce l'ho. Mi manca

Vedi i “pittini” dirigersi verso le mura della Fortezza e pensi che non gli manchi proprio nulla: sono belli, magri e pure tecnologici; in una mano tengono l'Iphone e nell'altra l'Ipad.

Osservi i pittini, ci vivi in mezzo per sei ore al giorno e scopri che di cose gliene mancano parecchie: le penne, per prima cosa. Me ne hanno rubato tre oggi (con eleganza, sia chiaro); senza contare una matita che non so dove sia finita (ma ho qualche sospetto). Chissà, forse per la primavera-estate 2013 ci sarà il ritorno della biro: “biro per sognare, per viaggiare, per immaginare scenari di vita alternativa” perché per i pittini con una biro non si può semplicemente scrivere: non è chic. Per ora, però, bic e compagne sono out anzi direi vintage, pezzi di antiquariato. Per questo, mentre sei lì che scrivi sul tuo taccuino, i pittini ti scrutano come si fa quando si guardano quei documentari che ricostruiscono la vita nelle caverne: increduli; a fatica riescono a realizzare come esistesse una vita prima dello smartphone.

Parlano “milanglese”, uno strano ibrido di italiano settentrionale – dove le r si moltiplicano le e spalancano la bocca – mixato con un fitto intreccio di parole prese dal dizionario anglosassone: brand, target, knowhow, bag, concept, total look, per non parlare dei colori – pink, sand, sunset (guai a dire rosa, sabbia e giallo-arancio) – e dei composti in -wear: underwear, beachwear, knitwear, ecc ecc. (rigorosamente pronunciato all'inglese). Ecco, un'altra cosa che manca ai pittini: la consapevolezza di avere una lingua madre talmente bella e ricca di sinonimi con una traduzione adatta per ogni termine made in London (o quasi).

Tra le migliaia di persone di ogni stregua e gusto che hanno calpestato la ghiaia rovente in questo secondo giorno alla Fortezza, solo una aveva un bimbo tra le braccia. I pittini si prendono troppo sul serio e i più piccoli se la danno a gambe (quando hanno già imparato a camminare). Certo, tra qualche settimana ci sarà spazio anche per i bambini più fashion del momento, direte voi. Perché quelli che sfilano pensate davvero siano bambini? O, piuttosto adulti in versione “micro”? Sarà, ma a me fanno impressione. Ho due nipoti che tra calcare una passerella e sbucciarsi le ginocchia a furia di giocare a calcio sull'asfalto so cosa sceglierebbero. Forse il terzo, che è troppo piccolo per saper parlare, potrebbero indurlo a gattonare con classe in cambio di una doppia poppata. Ma dovrei chiederglielo per averne conferma.




mercoledì 15 giugno 2011

Pitti Uomo - giorno 1: Chi l'avrebbe mai detto che le trote vivono nell'acqua salata?

Mi ero ripromessa di tenere un diario nei quattro giorni di Pitti Uomo, “la kermesse che per quattro giorni trasforma Firenze nella capitale della moda”, l'avrò scritto una decina di volte da un mese a questa parte. Non credo i miei polpastrelli reggeranno all'undicesima; li convincerò a resistere, però,  almeno per tenere questa sorta di quaderno semiserio a puntate.

Per quanto anch'io faticassi a crederlo, la moda è sfiancante. Dopo mezz'ora di fila per dimostrare di essere una giornalista vera, ne avevo già abbastanza. Per quanto ci si preoccupi di essere fashion a Pitti si sono dimenticati di una delle invenzioni più cool di sempre, di giugno specialmente: l'aria condizionata.

Benvenuti nel Magic Tour di Pitti dove per capire dove sei e cosa succede intorno a te ci vorrebbero gli 80 giorni in cui Marco Polo fece il giro del globo! Più che un “viaggio” alla scoperta del mondo delle tendenze per la primavera-estate 2012 (tema scelto per quest'anno), un labirintico training autogeno per forgiare la pazienza e i nervi di quei poveretti che, perché ce li hanno mandati o perché sono un po' masochisti (ricordate che dicevo nel post precedente a proposito degli italiani? Beh, gli stranieri non sono da meno), improvvisamente, e senza che nemmeno ne abbiano piena coscienza, si trovano a porsi domande esistenziali-filosofiche del tipo “siamo governati dal caos o c'è un preciso disegno divino che mi porterà entro stasera a riconoscere la strada di casa?”.

E, mentre sei lì che escogiti di improvvisarti Hansel e Gretel disseminando il tuo cammino con la miriade di fogli, foglietti, biglietti, bigliettini, inviti, brochure, cartelline, buste, (molto vintage, very cool) che ti rifilano ad ogni angolo calpestabile, ecco che le vedi sfilare sotto i flash dei fotografi: le fashion victim, come si dice in gergo “modese”, quegli strani individui ambo sessi che sembrano aver deciso di indossare in una giornata tutto il loro guardaroba. 

Fin qui “nulla di nuovo sotto il sole”: incontrare i modaioli a Pitti è come dire che nel mare ci stanno i pesci. Nel mare ti aspetti che ci siano orate e branzini; quel che fa rimanere secco è vedere, che ne so: le trote. E di trote alla Fortezza ce n'erano davvero tante, oggi: quel branco di insospettabili, e direi pure malvestiti, compratori o semplici curiosi. 

Non l'avrei mai detto ma nel vedere quelle orribili felpe attorcigliate alla vita che tanto piacciono agli uomini, sorpassati i trenta, ho tirato un sospiro di sollievo.  

domenica 12 giugno 2011

L'italiano che vo(l)ta

A dispetto di quanto abbiano detto al Tg1, oggi e domani si vota per il referendum. E non “volta” come ho scritto poco fa. Anche se questa potrebbe davvero essere la vo(l)ta buona per una (s)vo(l)ta; per vo(l)ta(re) pagina. Quanto sono strane le parole.

In una delle sue più brillanti (e disperate) canzoni Giorgio Gaber dice “io non mi sento italiano ma per fortuna, o purtroppo, lo sono”. Beh, oggi è uno di quei giorni in cui io dico “per fortuna”. E voglio scriverlo ora e subito in modo che lunedì sera, al momento dello spoglio, non mi possa rimangiare tutto. E sarebbe un vero peccato. Perché quella che ho visto in questi ultimi mesi, nelle piazze, su Facebook, sui muri e sui siti sono gli italiani che vorrei vedere ogni giorno. L'italiano genio e un po' pazzo, l'italiano che sfotte, sogna, ride; l'italiano che crea, l'italiano che lotta, l'italiano che commuove. L'italiano che trasforma una vecchia canzone di Madonna (“Vogue”) in “Come on vote”; l'italiano del Movimento 5 Stelle che ha un orgasmo quadruplo, l'italiano (Saverio Tommasi) che si inventa un'intervista doppia tra acqua pubblica e privata per spiegare “perché sì”, come dicono dall'Espresso; l'italiano che appiccica su Ponte al Pino (Firenze) uno striscione con su scritto “Amore, vota 4 sì e ti sposo!”. L'italiano (Cisco, ex Modena City Ramblers) che urla i suoi “due sì per l'acqua e quattro per il vino, così vedi come la gente va a votare”. Noi italiani sappiamo essere anche questo, accidenti a noi. Accidenti a noi perché ogni volta dobbiamo toccare il fondo per mostrare il vero lato B del nostro Paese, che non è né il culo delle veline, tesserine, schedine, donnine – né quel che resta del signor B. Ma è quell'aggettivo, “bel”, che spesso ne anticipa la definizione. Noi italiani siamo belli e bravi, un popolo di pensatori e artisti, di uomini e donne che in qualche modo si arrangiano, ce la fanno.

Il problema è che siamo pure masochisti. L'italiano è come la classica donna a cui piace l'altrettanto classico stronzo: ogni volta si dice che sarà l'ultima. E poi ci ricasca e si danna perché non riesce a capire come diavolo abbia fatto a ridursi in quello stato, e per uno così poi? Ecco, chissà che questa volta – ora che abbiamo paura di non poterci nemmeno più permettere di affogare, perché l'acqua potrebbe non essere più nostra – sia davvero quella buona in cui l'italiano pronuncerà quella frase per l'ultima volta: “ma come ho fatto ad essere così stupido?”. E non si volti mai più indietro.

domenica 5 giugno 2011

Piove


Piove. Da quasi due ore, ormai. Piove e grandina. Di colpo la natura si è dimenticata del calendario. Oggi è il 5 di giugno ma sembra uno di quei pomeriggi di settembre in cui ti rendi conto che l'estate è finita: un altro anno è passato e sei diventato grande senza che nessuno ti abbia avvertito. Ogni volta che piove, ma piove forte, mi viene in mente come, per quanto l'uomo possa arrovellarsi per imitarla, a controllarla, se solo volesse la natura potrebbe spazzarci via in un momento. Eppure non lo fa. Come una brava madre a volte ci fa solo capire chi è che comanda. 

(nella foto: La tempesta di William Turner, 1842)