Siamo arrivati al capolinea. Il Pitti tour è finito e con “lui” anche le pagine del mio diario a puntate. Come si fa alla fine di un viaggio che ti ha portato lontano (da cosa, chi e dove non ha importanza), è arrivata l'ora dei bilanci.
È stato un inferno. Capire dove mi trovassi, prima di tutto. Capire perché mi trovassi lì. Infine, capire perché gli altri si trovassero lì. Quella schiera infinita di pittini che, finché non li ho visti tutti insieme, pensavo quasi non esistessero per davvero, fossero una sorta di leggenda metropolitana; come dire che nelle fogne di New York ci sono gli alligatori. Poi il raduno fiorentino e la scoperta scientifico-antropologica: esistono. E sono pure tanti.
Sparsi per la “giungla urbana” si mimetizzano tra le infinite specie di umanoidi che la popolano. Bisogna osservarli in cattività per rendersi conto che sono a migliaia. Si muovono in piccoli gruppi, di due o tre individui, hanno una loro lingua, le loro abitudini, come quella di flettere di continuo la testa in alto e in basso: il loro modo di individuare altri simili. Alcuni sono raffinati, altri eccentrici. Tutti sono belli e sanno di esserlo. Dettano loro il ritmo della moda, decidono cosa è in e cosa è out. Non per loro, sia chiaro, ma per i comuni mortali che di Pitti hanno potuto solamente vedere l'ingresso. I pittini, infatti, sono sempre avanti di un anno rispetto a chi sta fuori: vivono nel 2011 ma già pensano a cosa indosseranno nell'estate del 2012. Interpretano alla perfezione la società in cui ci troviamo: ne sono lo specchio, come ho scritto un post fa.
È stata dura. Alla fine, però, è stato anche costruttivo scoprire questo strano mondo tutto paillette e anglicismi. Costruttivo e a tratti divertente fare come lo studioso che se ne sta quatto quatto dietro una roccia per assistere alle fasi di corteggiamento degli scimpanzé.
Dopo un viaggio lungo e faticoso però la sensazione più bella è tornare a casa.
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