Le lettere, di solito, si
scrivono nelle distanze; io invece, cara Sardegna, voglio scriverti
quando ti ho più vicina. So che la colpa non è la tua se turisti in
ciabatte calpestano le tue spiagge tre mesi l'anno facendo quello che
in “continente”, come piace ai noi, tuoi abitanti, chiamare chi
isolano non è, non si sognerebbero mai di fare: la vacanza è del
corpo e della mente, dopotutto.
Cara Sardegna, sai che
sono d'accordo con te. Sono d'accordo con te nel pensare che il mare
in agosto non sia mare ma una pisciata, che la spiaggia non sia
spiaggia ma una distesa di carne messa a rosolare, che le strade non
siano strade ma passerelle per donne in paillettes e leopardo, che la
notte non sia notte perché sudi e ci sono le zanzare e non puoi
tenere la finestra aperta a meno che non voglia avere uno che ti urla
nell'orecchio una canzone di Tiziano Ferro come se l'avessi nel
letto.
Cara Sardegna, sai che
siamo legate da terra e accento, sai che ti voglio bene ma oggi, oggi
è il giorno in cui ti devo dire che anche i continentali hanno le
loro ragioni. Lo so. Lo so. A sentirlo ti viene l'orticaria e forse,
per vendicarti, mi farai venire un tremendo eritema. Per questo
stamattina sono uscita di buon'ora e ho comprato due creme solare, un
tubetto di aloe, qualche forcina e una bustina porta trucchi e ho
speso settantuno euro. Ed è ancora mezzogiorno; cosa succederà
entro la mezzanotte non so perché devo ancora andare al mare,
tornare, uscire, qualche bere qualcosa, magari mangiare un gelato. E
sono cose che qui, cara Sardegna, non sono mica da poco. Mica puoi
uscire con gli spiccioli: qui serve molta, molta carta, cara
Sardegna. Siamo ad agosto? Siamo ad agosto dici? Certo, e tu vivi di
turismo: hai ragione anche tu. Il turista agostano è una merce; una
merce che compra dell'altra merce: funziona così. Forse, però,
farlo viaggiare in una nave merci è un po' troppo, non ti pare? “Ma
è quella?” si chiede qualcuno indicando un pezzo di ferro,
arrugginito su e giù tinto di blu. È
quella, signori. Forse anche i personaggi della Looney Tunes hanno
chiesto le ferie nelle due settimane centrali d'agosto perché della
Moby quel coso, quel coso che galleggia non ha nulla. Ah, sì, scusa.
Parcheggi la macchina sotto le urla di uomini in tuta arancione che
stordiscono come i sonar i cani, sali al ponte 5 e vedi la balena
blu: quindi non è una nave merci, è una nave merci moby. Appurato
questo, decine di passeggeri con zaini in braccio, bambini in
braccio, borse frigo in braccio, passeggini in braccio, mogli in
braccio si fiondano alla ricerca di un bar, “ci hanno detto che
c'è”, dice qualcuno a bocca aperta quando si trova davanti solo
scale. Per esserci, c'è. C'è pure un comodo self-service dove poter
pranzare: cotoletta e patatine, acqua piccola, coca cola per due, “34
euro, grazie”. Dice un tizio alla cassa mentre il tizio che serve
urla “chef, vai con le bavette”. E lo chef è un tizio grasso in
bianco che si toglie il sudore dalla fronte con la mano. La stessa
con cui butterà le bavette nell'acqua salata, temo.
La
nave parte con un'ora di ritardo e arriva con quasi due ore di
ritardo. Più che una nave sembra una di quelle palestre delle scuole
che fanno vedere in tv quando i terremotati vengono sfollati dalle
loro case: sdraiati per terra, addormentati su due sedie o con la
testa sul tavolo; una ragazza si è anche portata il cuscino da casa.
Quella nave nel Tirreno è un dormitorio galleggiante e così rimane
per dieci lunghe ore. Si possono sentire le chiacchiere di due che
progettano un'altra vacanza, una crociera (magari loro sono i soli di
buonumore lì dentro), uno che si lamenta con la compagna perché da
quando lei ha l'I-pad non lo ascolta più, “è diventato un tuo
prolungamento”, le dice serio; due che ridono mentre Berlusconi si
dichiara innocente e dice che non mollerà. Così passi il tempo,
accasciandoti anche tu sul tavolino, leggendo, ascoltando i discorsi
degli altri, chiacchierando, e guardando fuori dagli oblò. In cerca
di qualcosa, di una costa, di terra ma niente per lunghe, lunghissime
ore, finché tu, cara Sardegna diventi un puntino nell'orizzonte. E
resti un puntino, un odioso puntino per due ore interminabili finché
non attraversiamo il fianco di Tavolara e ne si possono vedo tutte le
nervature e contare gli arbusti e gli ombrelloni e le teste talmente
si va piano. Però ci sei, sai che ci sei. Sei alla fine di una corsa
e sei stanco, provato, te la stai anche facendo addosso così dici
“vado in bagno prima di scendere” ma i bagni li hanno già chiusi
e tu finisci di pensare “vabè, staremo per arrivare” che arriva
l'annuncio “arrivo previsto tra quarantacinque minuti”. E lì,
l'urlo sconsolato di una folla di persone, come quando la nazionale
italiana manca il gol di un soffio, proprio di un soffio.
Arrivi
come sei partito, dal porto industriale. Al porto di Olbia o di
Golfo Aranci ti aspetterebbero una pattuglia di carabinieri, una di
polizia municipale, guardia di finanza con tanto di cani lupo,
ambulanza, pompieri, agenti in borghese issati sulle torri di
avvistamento con fucili di precisione e bazuka. Lì, nel porto
industriale di Olbia è il deserto. Nessuno. Sono le dieci di notte e
i sardi scendono con la macchina o qualcuno è venuto a prenderli. I
continentali hanno anche loro la macchina ma qualcuno no. E li vedi
vagare in fila indiana tra i container, camminare sconsolati sul
ciglio della strada, ancora alla ricerca di qualcosa. Di un taxi, di
un autobus, di un'indicazione per il centro.
Mio
padre aveva un amico da ragazzo che dopo un film chiedeva sempre
preoccupato “chissà come starà oggi”. Non riusciva a capire che
quello di cui si preoccupava era un attore, che non c'era nulla di
vero in quello che aveva visto. Il bello, cara Sardegna, è che qui
l'amico di mio padre farebbe bene a preoccuparsi.
Cara
Sardegna, sono a casa.
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