Tornare a casa è sempre un pugno nello stomaco. Questa volta è arrivato dall'alto di un aeroplano ma di solito mi sorprende durante le otto ore di traversata che separano la Sardegna dal resto d'Italia, dalla terra ferma. Otto ore in cui di fronte a te hai solo un'immensa distesa di buio e una miriade di pagliuzze argentate. Otto ore, spesso insonni. Come se il ritorno a casa te lo dovessi in qualche modo sudare, meritare. È dentro quelle cabine, seduta sulla moquette, che torno ad essere sarda per davvero. Alle prime luci dell'alba, con la mente ancora confusa dal sonno e le voci dei passeggeri a darmi il benvenuto: quell'accento fiero e marcato e gli sguardi che indovinerei tra mille.
Il sole, quando si passa dalla penombra dei garage all'aria aperta, è accecante. Ma non ho bisogno di vedere. L'aria è densa di salsedine, nafta e finocchietto selvatico.


È tutto uguale intorno a me: casa mia e l'enorme distesa di cielo azzurro che dà quasi le vertigini.
Eppure è tutto diverso.
Eppure è tutto diverso.
Sono a casa.
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