Estate, tempo di
speranze. Estate, tempo dei “tra poco ricomincio e ricomincio come
dico io”. Un capodanno senza tre-due-uno che ti aspetta quando sei
un po' più abbronzato e meno indaffarato: no lavoro, no stress, no
città, almeno per me. E, visto che non c'è nient'altro da fare,
allora pensi. Estate, tempo di bilanci. Pensi a come sia andato
l'anno, se sia andato liscio "come il piscio" - come disse un giorno un
passeggero-genio salendo sulla Sardinia Ferries - oppure se sia rimasto
qualche strascico, di cose che avresti voluto fare e non hai fatto.
Un esercizio nostalgico,
forse banale che si ripete ogni volta, sul finire d'agosto. Ti sforzi fino a ricordare esattamente non solo a cosa
pensassi un anno prima, quale fosse il tuo umore, ma anche il luogo
preciso in cui ti trovavi mentre le sinapsi facevano i krumiri; come i bambini americani che interrogano le proprie madri su dove si trovassero mentre assassinavano Kennedy. Io ho concluso che nel
momento topico in cui ho pensato “anno di merda. Ok, cosa farò al
ritorno dalle vacanze?” ero al mare con una mia amica: maestrale, ovvero sabbia in bocca e acqua ghiacciata; io con un cappellino in
testa perché mi ero scottata l'attaccatura dei capelli.
L'anno scorso prendevo il
tesserino di giornalista pubblicista e, quasi al contempo, rimanevo
senza un giornale su cui scrivere. Se c'è un destino allora ha
proprio voglia di prendermi per il culo, certo che l'ho pensato. Dimenticavo il tempo dei
piagnistei, de “la sfiga è mia amica”, dei deliri catastrofisti “non
è che la sfiga sono io?”, dei propositi di vendetta “se sono io
so anche con chi prendermela”. Spesso questo tempo, quello delle
elucubrazioni mentali, è anche il tempo del non fare: è una
pacchia lamentarsi ululando alla languida luna d'agosto e sentenziare
su come te la passi male mentre gli altri, beh, gli altri stanno
sempre meglio. Poi i vacanzieri in bermuda e scarpe da frate tornano
a essere impiegati, cassieri, professori, idraulici; le donne
smettono i panni della sirena vamp o della naturalista tutta lino e
pashmine. Con meno pelle e piedi in vista anche tu devi cercare il tuo, di
posto.
Credo sia quello che ho
fatto dallo scorso settembre, probabilmente è per questo che ho
smesso di scrivere qui, nonostante di cose da raccontare ne
avessi, più del 2010, quando questo spazio è nato, e del
2011. Forse è vero che quando inizi a vivere tanto e le esperienze,
le persone si affollano e con loro i posti, le idee, sei più
impegnato a non perderti nulla che a fermarti a raccontare. Anche
perché per raccontare bisogna capire e per capire ci vuole tempo.
Forse ho smesso di
scrivere perché m'è presa paura. Perché ho provato a scrivere
qualcosa che non fossero le quattromila battute di un post o la
recensione di una mostra e ne ho scritto solo un pezzo e mi sono
fermata perché faceva troppo schifo. E, quando succede questo, ti rovini più
di qualche pomeriggio ma se sei bravo e zitto finisce lì senza
testimoni oculari; se lo infliggi a qualcuno e quel qualcuno ti dice
che fa schifo passi dall'essere d'accordo, al sentirti offeso,
ferito, incompreso. E noiosissimo, allora non scrivi più perché temi il giudizio, temi il “fa
schifo-bis”.
Il mio buon proposito per
quest'anno è capire, ricominciare da qui, dal blog, a scrivere, se non me la farò troppo sotto. Sì, anche fare dello sport, anche se per qualcuno correre non è uno sport.
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