Ogni giorno compiamo
azioni per così dire automatiche. Le chiamiamo abitudini: mangiamo
tre volte al giorno, dormiamo 8 ore a notte, beviamo una media di due
caffè... e almeno una volta al giorno accediamo a Facebook. Tutti
gesti quotidiani, a parte l'ultimo, li ripetiamo tanto quanto dura
il calendario per un motivo preciso: sopravvivere. Non si vive senza
mangiare, senza dormire e, oserei dire, anche senza caffè. Vi siete
mai chiesti, invece, perché la vostra giornata non si concluda senza
aver cliccato sulla big F?
Io tante volte. L'ultima, su richiesta di una psicologa durante un colloquio di lavoro. Ha cercato di non farmelo capire, ma io ho capito lo stesso: non era affatto contenta. Forse anche del mio curriculum vitae, ma soprattutto di quel grande calderone che è Facebook. Avrei voluto chiederle il perché ma non ero io a poter fare le domande (posizione scomoda, quella). “Mi spiega che ci trovate, voi giovani, in Facebook?”: ecco il quesito.
Io tante volte. L'ultima, su richiesta di una psicologa durante un colloquio di lavoro. Ha cercato di non farmelo capire, ma io ho capito lo stesso: non era affatto contenta. Forse anche del mio curriculum vitae, ma soprattutto di quel grande calderone che è Facebook. Avrei voluto chiederle il perché ma non ero io a poter fare le domande (posizione scomoda, quella). “Mi spiega che ci trovate, voi giovani, in Facebook?”: ecco il quesito.
Ed ecco la mia versione:
è l'ennesima valvola di sfogo dell'era tecnologica, un modo per
condividere fortune e sfighe (ma soprattutto le sfighe) della nostra
esistenza. Alcuni la buttano sul ridere, altri sul melodrammatico, il
risultato è lo stesso: lamentarci sulla nostra e sull'altrui bacheca
ci piace proprio. Nel bene e nel male Facebook è un po' la cartina
tornasole della società: globalizzata ma sempre più individualista,
evanescente ma in apparenza concreta, e pessimista. Un casino,
insomma.
Facebook
è una facciata, letteralmente è il “libro delle facce”, (un
annuario) nel quale appiccicare il profilo che più ci rappresenta. O
farlo credere agli altri, che ci rappresenti, voglio dire. Quando
andavo a scuola, i secchioni erano etichettati come degli sfigati;
nell'“era F” gli intellettuali hanno perso la S e si sono
trasformati in “fighi” (o fichi, a seconda della vostra regione
di provenienza). E tutti vogliono esserlo (ma non lo dicono, anzi
inorridiscono: sintomo inconfutabile dell'essere “fighi” oggi).
Strumento dell'emancipazione sociale su Facebook sono i link e la
risposta alla domanda: “A cosa stai pensando?”. Sto pensando alla
“Critica della Ragion Pura”, al “Capitale”, al “Principe”
e al pessimismo cosmico di Leopardi. Se si dovesse dar retta alle
bacheche di Fb verrebbe da credere che passiamo il 90% del nostro
tempo a riflettere su come risolvere il conflitto in Medio Oriente o
su come porre rimedio alla crisi internazionale della Borsa; poi vai
a vedere i dati Istat e scopri che l'italiano medio legge meno di 3
libri all'anno e uno su quattro non sfoglia nemmeno un quotidiano
(compresi quelli online).
Quanto
di ciò che scriviamo, postiamo, commentiamo corrisponde davvero a
ciò che siamo, a ciò che sappiamo? Non fraintendetemi. Ci sono
persone che credono fermamente nel ruolo educativo dei social
network. In un certo senso io mi ci metto in mezzo. Arrivare
(potenzialmente) a milioni di persone significa avere un grande
potere, compreso quello di far circolare le notizie (si potrebbe
discutere, semmai, sull'affidabilità di alcune di esse); far
circolare notizie significa informare; informare significa educare;
educare vuol dire far crescere menti libere. Però. (C'è sempre un
però).
Vi
capita mai di leggere, ascoltare, vedere qualcosa, che vi
venga in mente una riflessione intelligente e poi di pensare: “mi
sa che questo lo scrivo su Facebook”? A me, sì. E mi capita anche
di essere contenta se qualcuno clicca sul “mi piace” (sul
dilagare del riflessivo “mi piace” nel colloquiale si potrebbe
scrivere un saggio di linguistica, ma questa è un'altra storia). La
reputazione, meglio il prestigio sociale, su Fb come nella vita,
conta come conta sapere da che parte stai, specie in questo periodo.
Ci abbiamo provato, a
sfuggire da questi meccanismi. A pensare che il web fosse un po' come
la Redbull e ci mettesse le ali. Con Second Life, gli avatar, gli
alter ego anonimi della realtà virtuale che tanto andavano di moda
prima degli anni duemila. Allora persino un cane poteva far credere
di essere un single in cerca di nuove amicizie (ricordate
la vignetta di Peter Steiner apparsa sul “New Yorker” nel 1993?).
È durato poco, non poteva
durare: perché abbiamo esagerato (ricordate la polemica sulla
condotta morale degli utenti di Second Life: come si dovessero
considerare – e sanzionare – le violenze nel
mondo virtuale?); perché abbiamo sbagliato a pensare che bastasse un
fumetto in 2D per sentirci liberi da regole più o meno scritte.
Questo che significa? Che gli avatar e i mondi virtuali sono
diabolici marchingegni che inducono a peccare?
O che siamo noi, come
sempre, a rovinare tutto?
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