Quando questo blog è nato mi sono imposta una regola, una sola: essere sincera, con me stessa prima che con voi. Eppure, la tentazione di dare una mano di bianco a quello che sto per scrivere è tanta. La paura di essere fraintesa, giudicata è forte, mi blocca quasi il pensiero e le mani; ma l'esigenza di raccontare lo è di più.
Sono stata a una mensa per poveri a novembre. Ogni anno da un po' organizzano un pranzo benefico nel giorno di San Martino e io ero là, per lavoro. In quasi dieci anni non mi ero mai accorta dell'esistenza di una porta laterale proprio sotto il loggiato di Piazza Santissima Annunziata; avevo notato l'hotel, gli studenti di Lettere sulle gradinate, le coppie di turisti che indicavano gli Uffizi su una cartina, ma il via vai di quella porta no. Non mi ero mai fermata a pensare al perché ogni giorno decine di persone si ritrovassero lì, sempre alla stessa ora: giovani muratori dell'est e senzatetto seduti accanto ad anziane signore col vestito buono e vecchietti con bavero del cappotto alzato e in mano una busta di plastica azzurra; uomini e donne come se ne vedono tanti, in disparte e silenziosi che a fatica riescono a guardarsi negli occhi. Gli stessi che mi sentivo puntati addosso, quel giorno. O ero io che guardavo loro? Sì, è così. Li guardavo. Li fissavo, e pensavo. Pensavo che io sono diversa da loro che, in quello stato, a dover mendicare un pranzo, non mi ridurrò mai.
Quando sono arrivata di fronte a quella porta ce l'avevo a morte con ognuna di quelle persone, arrese e inermi a una vita li stava divorando; quasi non gli interessasse, quasi non volessero che essere distrutti, annientati. Ero arrabbiata per questo, ma non solo. Mi sentivo fuori posto. “Io non ho nulla a che vedere con questa gente, anzi sono loro a non azzeccarci nulla con me”.
Mi scaldo parecchio se qualcuno si azzarda a dire “negro” o “frocio” o “puttana” a una donna solo perché fa sesso esattamente come un uomo o perché si veste in modo provocante. Ma lo faccio dalla mia bella casa di Firenze, pagata con i soldi dei mie genitori; vestita con gli abiti pagati dai miei genitori; con a tavola pranzo e cena assicurati, pagati con i soldi dei miei genitori. Si parla bene dall'alto della mia condizione, nei panni di una che per tutta la vita è stata un'estranea della vita, di una che non conosce nulla di come si stia fuori senza il bonifico di mamma e babbo, puntuale ogni mese. Una che si riempie la bocca e i pensieri di idee nobili ma che, di fronte a un altro che non rientra nel suo modello prestampato di vita, non riesce che a pensare: “io sono la normalità, tu il diverso e non ti sopporto”.
È terribile. È terribile e ironico come tutto ciò che non accetto, non concepisco, detesto negli altri in quel momento, a tavola, mi abbia sopraffatta: il pregiudizio e un aspro rifiuto per la mia stessa carne, per uno che potrei essere io. Uno uguale a me. Un rifiuto talmente potente da farmi venire la nausea quando ho provato a mandar giù un boccone di carne: era un pasto molto calorico, ci hanno spiegato, per dare energie e riscaldare il corpo di chi, con tutta probabilità, avrebbe dormito all'aperto quella notte. Io tutto quello che avevo in mente era che lì non ci volevo stare. Sarei voluta scappare, tornare a casa e levarmi di dosso l'odore acre di cucina misto a sudiciume di cui il mio perfetto vestito blu savoia era ormai impregnato. Avrei voluto lavarmi la bocca col sapone come si faceva una volta ai bambini che si azzardavano a dire qualche brutta parola, pensando di non essere sentiti. Ma non potevo.
Mentre in molti mangiavano in silenzio o bisbigliando è come se le mie parole rimbombassero nella sala in un'eco martellante; come se tutti potessero sentire la puzza dei miserabili sentimenti che provavo, compreso chi applaudiva per ringraziare del pasto abbondante: tre portate e il dessert, un gelato al gusto di kaki.
Ripensando a quel pranzo mi è venuta in mente una lezione che ho seguito l'ultimo anno di università; l'argomento era: “il pregiudizio e lo stereotipo nella costruzione della notizia”. Me lo ricordo bene, quel pomeriggio. Non ero d'accordo su nulla di quello che la professoressa diceva. “Il pregiudizio non è che il giudizio prima della conoscenza, l'idea che un individuo crea mentalmente riguardo una cosa, una persona, un evento in genere prima che ne abbia un'esperienza diretta. È una scorciatoia cognitiva per il nostro cervello, un meccanismo che ci permette di catalogare semplificando attraverso lo “strumento” degli stereotipi: informazioni e credenze che derivano dalla cultura di riferimento e vengono rafforzate da una certa (e discutibile) condotta dell'informazione”, era più o meno il concetto espresso. Insomma, il pregiudizio è in qualche modo innato, insito nella mente dell'uomo e poi fomentato dai mass-media. Quindi anch'io ragiono in quel modo. Io? Impossibile. Reazione tipica, ma in quel momento non l'avevo capito. Non avevo capito che ammettere il problema significa affrontarlo, iniziare a guarire. Perché anche noi in un certo senso dobbiamo guarire da ciò che continuamente realtà e realtà mediata ci propinano.
Secondo gli studiosi, l'antidoto a questa sorta di “patologia genetica” sta proprio qui: nel riconoscere gli stereotipi di cui il nostro cervello si ciba per fare chiarezza nell'enorme caos che è la realtà ed essere disposti a metterli in discussione. Come? Incontrando persone, provando sensazioni, osservando, ascoltando. Vivendo, insomma, non limitandoci al sentito dire. Forse però “antidoto” non è proprio il termine giusto. Quello funziona a prescindere che tu creda o no che possa salvarti, che creda o no nella scienza medica: entra in circolo ed è fatta. Nel caso dell'esperienza sei tu a scegliere. Un po' quello che Morfeus dice a Neo in Matrix: “Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant'è profonda la tana del bianconiglio”. Di fronte a un episodio qualsiasi che sembra confermare il nostro pregiudizio siamo noi dunque a dover decidere se accettare che questo avvenga, a decidere che quello sarà il nostro punto di vista, o di rifiutarlo e andare oltre.
Io, le pillole, non sono nemmeno capace di ingoiarle ma nella tana del bianconiglio ci ho voluto guardare lo stesso. Mi ci son voluti quattro mesi per venirne a capo ma alla fine credo di averla almeno intravista quel giorno, attraverso quella porta in Piazza Santissima Annunziata. Quando, a tutti i pensieri caritatevoli che mi passavano per la testa, si è sostituito il rifiuto per l'altro sotto forma di stupide definizioni: sono persone arrese, che non fanno nulla per cambiare la loro posizione, cioè per avvicinarla alla mia; persone che vivono alle spalle della società mentre gli altri si fanno il mazzo per vivere dignitosamente; persone che non hanno niente da perdere e dunque rappresentano un potenziale pericolo per me e per le persone a cui voglio bene.
Il mio cervello è fatto con lo stampino, come quello di tutti. I miei modelli sociali e culturali sono comuni al mio gruppo di appartenenza. I mass-media influenzano le mie percezioni della realtà. Non sono diversa. L'ho capito. Lo riconosco. Davanti a me, le due possibilità. Ho scelto. E forse ora inizio a guarire.
Questo post è bellissimo Silvia. Il fatto che abbia ascoltato le tue sensazioni e i tuoi pensieri, sul momento, e che successivamente ci abbia lavorato sopra, evitando di buttarteli dietro le spalle, ti fa onore.
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