sabato 23 ottobre 2010

Anatomia dei pensieri di un pomeriggio


Per chi scrive non c'è nulla di peggio che non avere idee; che stare lì, di fronte alla pagina bianca, e non sapere come riempirla. Che fare a quel punto? Cosa inventarsi quando le parole sembrano intrappolate chissà dove nella tua mente e neanche lo swing di Frank Sinatra riesce a farle venire fuori? Non resta che scoprire perché vogliano rimanere lì. Se c'è una cosa che ho capito in questi ultimi, diciamo, due anni è che quasi nulla avviene per caso. Almeno, non dentro di noi. Il malumore, la malinconia, lo scoglionamento, lo scoramento, l'angoscia sono tutti sentimenti che ti esplodono in petto per una ragione, sempre. Magari ti tocca scomodare cose che ti sono successe mesi, anni prima; faccende che pensi ormai sedimentate in fondo allo stomaco finché non arriva qualcosa che le riporta a galla, tutte insieme (e, allora, son guai). Un po' come quando metti lo zucchero nel caffè: se non c'è il cucchiaino a scuotere “le acque”, i granelli stanno pacifici sul fondo; dai la prima sorsata e...: bleah!, è amarissimo. Così, spingi il manico fino in fondo e giri e giri finché non ti sembra che possa bastare, finché non diventa dolce al punto giusto. Con i sentimenti è lo stesso, almeno per me. Quindi, mi son detta che tre settimane senza uno straccio di idea per il mio blog erano più che abbastanza.

Oggi a Firenze il cielo è blu fiordaliso. Lo vedo dalla mia finestra. Nonostante il freddo, l'ho spalancata: oggi ho bisogno di luce.
Quando ero piccola volevo fare il suonatore di sax. No, il veterinario. No, la pubblicitaria. No, la giornalista. Scrivere mi piace da matti anche se non sono, certo, il prototipo della cronista “d'assalto”. Anzi, diciamo che sono l'esatto opposto: timida, insicura, discreta e discretamente impacciata; almeno, è così che mi vedo da dentro. Quindi, una domanda sorge spontanea: ci sono tagliata? Me lo son chiesta mille volte, me lo chiederò altre due mila e mi darò tre mila volte la stessa risposta che, puntualmente, mi convincerà solo per un po'. E, così, mi viene in mente mio padre: quando lo guardo negli occhi, quando lo vedo camminare tra i ponteggi dei palazzi in costruzione, mi rendo conto che non avrebbe potuto fare altro nella vita, tranne quello che - da più di quarant'anni - è il suo mestiere. Perché è più forte di lui e, tutte le volte che passa di fronte a un nuovo cantiere, rallenta, abbassa il finestrino e inizia a guardare; perché a stare davanti al televisore in ciabatte non ci sa proprio stare, allora, anche quando è in vacanza, prende le chiavi e va a controllare che tutto sia a posto. Perché, quando tira su una casa, pensa alle persone che ci abiteranno, che lì costruiranno una famiglia. Lui era tagliato per fare il suo mestiere? Senza alcun dubbio, sì. Anche se, probabilmente, quando ha iniziato non lo sapeva nemmeno lui. Eppure, ci ha creduto, talmente tanto da correre il rischio di provarci, con una moglie e tre figlie e “neanche i soldi per comprarvi un gelato”, come dice spesso ricordando quei tempi.

Anch'io vorrei un lavoro così. Vorrei un lavoro che mi manchi come l'aria quando non lo faccio, che mi appassioni tanto da spingermi a non accontentarmi dei facili risultati, un lavoro che non sia utile come una lavatrice ma come quelle fotografie non posate: senza “sorrisi per la stampa” ma con un'espressione che sa di verità.

Non è semplice. Anzi, è quasi impossibile. Sono laureata da cinquemesiduesettimaneeduegiorni e la strada è tutta in salita. La mia posta “inviata” è stracarica di richieste di impiego, proposte di collaborazione, stage: “per ora il nostro organico è al completo ma, se in futuro ci servisse una figura professionale che corrisponde alle sue caratteristiche, la terremo in considerazione”, queste le uniche risposte. Una decina di mail al giorno con proposte di prestiti, master e ottime opportunità per diventare “segretaria di studio medico”, quelle sì che arrivano, e pure puntuali. E, questo, lo capirete, non è che mi faccia venire tanta voglia di scrivere.

Vivo di alti e bassi, un po' come tutti. Ci sono giorni in cui mi sembra che la soluzione migliore sia mollare tutto; poi, mi capita sott'occhio una pagina scritta e, puntualmente, ci “ricasco”: mi dico che quel Mago Merlino (un tizio che mi ha letto la mano, qualche tempo fa) deve pur aver azzeccato qualcosina, DEVE! (Deve?); che prima o poi il mio telefonino squillerà e, a quel punto, mi guarderò indietro e penserò che, in fin dei conti, non è che stessi poi così male (odioso, eh?).

Vivo alla giornata, ma mi piacerebbe fare progetti o, almeno, vorrei essere io a scegliere di non farne.

Devo avere pazienza, lo so.

Infatti aspetto ma, finalmente, scrivo.



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