martedì 13 luglio 2010

Etichette da appiccicare e treni da prendere

Ho assistito a diverse lauree in questi ultimi mesi, anche alla mia. E, tutte le volte, c'è un momento che mi colpisce: la proclamazione.
Non per la formula in sé, o per la solennità del momento, ma perché avviene sempre di corsa: quando i parenti e gli amici riescono ad entrare nell'aula tesi, nella maggior parte dei casi è già tutto finito. Le poche volte che, invece, scavalcando qualcuno, si riesce ad essere presenti, non si sente nemmeno una parola. “In nome dei poteri conferitimi dal Magnifico Rettore, la dichiaro Dottore”, questa è la formula. Sono andata a cercarla su internet perché, a momenti, non l'ho sentita distintamente neanche quando me la son sentita pronunciare dal presidente della commissione a venti centimetri dalle mie orecchie. Eppure, è una frase che si dovrebbe sentire forte e chiaro, un po' come gli annunci dei traghetti che ti svegliano alle 5 del mattino per ricordarti che il Caffè self service è aperto per la colazione. Perché è quella formula a dirti chi sarai a partire da quel preciso istante: non più la stessa persona che ha lasciato casa, amici e famiglia – ma chi lo è più? – , ma neanche la stessa che, fino al giorno prima, ripassava il discorso da presentare di fronte ai docenti: la tua “etichetta” è cambiata. Lo capisci dopo un po', per caso, quando ti capita di incontrare qualcuno che ti fa la fatidica domanda, “e tu, studi o lavori?”: è un classico. Che rispondere, a quel punto? Sulla mia carta d'identità alla voce “professione” c'è scritto studente, ma non lo sono più. E, allora, come definirsi quando l'etichetta del documento che ti dovrebbe dare un'identità non è più adatta a descrivere chi sei? È forse per questo che esiste la formula che ti dichiara “dottore”, per sostituirla a quella di “studente” che ormai non ti calza più?, mi sono chiesta. Probabilmente, sì; per questo si dovrebbe sentire ad alta voce, perché è in quel momento che la vita comincia per davvero: la voce del navigatore satellitare – che ti ha guidato per vent'anni – si blocca, la destinazione è raggiunta: ora devi camminare. Da solo. E, all'inizio, può far paura: l'hai sognato sin da quando litigavi con i tuoi per il coprifuoco, essere libero. Nel momento in cui lo diventi, però, non ti senti più pronto. Sei rimasto in una sorta di stand-by ad aspettare qualcosa, che sembrava non arrivare mai, per tanto di quel tempo che ti aspetti di doverlo fare ancora. In fin dei conti, la vita dello studente non è che una continua attesa; solo chi lo è, o lo è stato, può capire come ci si sente: è la stessa sensazione che si prova ad aspettare un treno. Senti il primo annuncio: dovrebbe arrivare in perfetto orario. “Lo aspetterò direttamente al binario, così salgo per primo e mi prendo il posto migliore” pensi. Quindi, prendi la tua valigia e percorri la stazione a passo svelto. Quando arrivi al binario, però, una folla di gente sta già lì ad aspettare: tutti vogliono prendere quel treno, ed essere i primi a salire. Mentre ti renderti conto che c'è un intero universo fuori da te stesso, arriva il secondo annuncio: 10 minuti di ritardo. “Che saranno mai dieci minuti! Se faccio una corsa riuscirò ugualmente ad arrivare puntale all'appuntamento” ti dici fiduciosa mentre metti su le cuffie e sfogli una rivista. Di minuti però ne passano 45, la voglia di leggere è passata, così alzi gli occhi e inizi a guardarti intorno: molta della gente che hai visto mentre gironzolavi con la tua valigia è già partita: il loro treno è arrivato in orario o, almeno, è quello credi. In realtà, alcuni erano lì da prima che tu arrivassi oppure hanno cambiato destinazione o, ancora, ci hanno rinunciato. Tu, invece, sei sempre lì ad aspettare, da ormai così tanto che inizi a chiederti se per caso non hai sbagliato binario o se, magari, non sarebbe stato meglio stare a casa. Altro annuncio: il ritardo aumenta. Chiami casa, ti senti in colpa perché aspettano tutti te e tu non ci sei, perché non puoi farci nulla: devono avere pazienza. Ti sembra che siano loro a non avercela – e forse è anche vero – ma quello che non ce la fa più ad aspettare sei soprattutto tu: vuoi partire, devi partire. Guardi ancora una volta l'orologio e inizi a contare il tempo che passa; conti anche i secondi. Ed è proprio in quel momento, quando ci hai quasi rinunciato, che da lontano intravedi qualcosa: è il treno che si avvicina alla stazione. Lentamente, ma arriverà dritto di fronte a te come quel professore che, con un tono ufficiale, ti proclamerà dottore. Finalmente sali sul treno: c'è ancora più gente di quanto ti aspettassi, i posti comodi sono già occupati da un pezzo, tanti – come te – stanno in piedi, stretti come sardine; a volte, sembra addirittura che ti manchi l'aria. Ma una cosa è certa, anzi due: il treno è partito e tu ci sei sopra. Quindi, tanto vale lasciare ogni dubbio alle spalle e godersi il viaggio, senza più la paura di non avere un'etichetta a cui far riferimento quanto ti trovi a dover rispondere a una semplice domanda. E se qualcuno, nel frattempo, dovesse chiedermi che faccio nella vita gli risponderò che, se avrà pazienza, lo scopriremo insieme alla fine della corsa.

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