sabato 15 settembre 2012

Ombre rosse


Prendete cento persone affamate e mettetele davanti a un buffet. Scoprirete che gli anziani corrono, che i giovani sono lenti, che quelli che stanno in mezzo sono addestrati come soldati: “tu prendi il secondo, io il primo. Poi ci vediamo qui tra un quarto d'ora, se non ti vedo andrò senza di te”.
Vedrete uomini a braccetto studiare il tavolo con sopra le portate, ancora celate da coperchi d'acciaio; li vedrete fiutare l'aria: “è una cotoletta” “no, arrosto” “crauti” “a me sembra minestra”, intercettare camerieri e cercare di estorcergli informazioni usando sofisticate tecniche di spionaggio: il sorriso dolce delle proprie mogli, di donne che, agli occhi di giovani tirolesi, sono come la propria nonna, e alle nonne non puoi non dire. E così la voce si sparge: i primi piatti sono a destra, vicino al pane, a sinistra pesce e carne, forse delle patate.
Sentirete un silenzio che dura un attimo, quando i coperchi saltano e da lontano si intravedono teglie ardenti di cibo: sempre troppo poco. Se fosse un western di Sergio Leone ci sarebbero i tagli immagine sugli occhi, sul cappello da cowboy e sul cigarillo tra i denti. Qui siamo in guerra, non c'è il tempo per pensare; se pensi sei un uomo col piatto vuoto. Non c'è il fotofinish, non si sa chi sia arrivato per primo, ti giri e vedi solo le teste dei vincitori; dietro uomini e donne di spalle e in punta di piedi “se ce la faccio prendo la pasta”, si dicono o lo pensano solo. Qualcuno dice “formiamo una fila ordinata” ma è rimasta solo una bistecca ed è il caos, una lotta per la sopravvivenza; una strana lotta perché qui a perire sono i giovani: sono più timidi, tentennano, indugiano nell'affondare la forchetta sull'ultima porzione di pasticcio. Gli anziani giocano sull'esperienza, sulla riverenza, usano spietatamente le proprie rughe, conoscono la fame del 43' che i giovani non possono aver patito. Inutile competere, allora aspetti. Aspetti che la gente diradi, e pian piano le tavolate si riempiono di persone di cui ora vedi solo le nuche. Tra un boccone e l'altro, qualche commento “tattico”: “hai fatto come me, bravo: anch'io ho preso un po' di tutto, che poi questi non lasciano nulla”; chi gioca in squadra di due e si divide il malloppo col coltello come fosse un bisturi; chi si compiace perché il vicino di tavolo si è riempito il piatto di un intruglio immangiabile o di qualcosa di molto rosa che sembra testa in cassetta, no “è sanguinaccio”, avvertono. “Ci avessero messi più vicini al tavolo del buffet, saremmo riusciti a fare meglio”, si lamenta qualcuno.
Dicevo, i giovani sono lenti. E gli anziani non buttano via nulla. Poggi il piatto dell'insalata (che non sei nemmeno riuscito a condire), qualcuno ti parla. Passa un minuto, forse meno. L'insalata è già nel piatto del tuo vicino di gomito. “Ma non era la tua?”. Ormai è sua, visto che ce l'ha quasi tutta nell'esofago. “Può portare gentilmente del pane?”, chiede uno a un cameriere. Lui gli fa la faccia storta: è un buffet non c'è servizio al tavolo. Come tutti gli uomini gli fa credere che glielo porterà, e poi... e poi va da un'altra parte. Il tizio guarda a destra e a sinistra, non può mangiare la sua carne senza un pezzo di pane. Alzarsi? Dite alzarsi a prenderlo? Meglio chiedere ancora, a una donna questa volta. La cameriera lo guarda storto, come tutte le donne gli fa credere che non glielo porterà e poi glielo porta. Qualcuno dirà che gli uomini sono maschilisti di default perché le donne sono anche loro delle maschiliste; e forse questo qualcuno ha pure ragione. Sta di fatto che il tizio può finalmente mangiare la sua bistecca con un pessimo pezzo pane. “Vedi”, si volta soddisfatto verso sua moglie, “le cose vanno sempre chieste alle donne”.
È il momento del secondo assalto e del terzo finché sulla lunga tavola imbandita rimangono solo briciole, scarti di carne, sughi e qualcosa che nessuno ha capito cosa fosse e non s'è fidato. “Ci sarà un dolce?”; prima lo senti come un'eco leggera, poi sempre più forte finché la stessa frase diventa un punto esclamativo: il dolce c'è. Anzi ce ne sono tre. Ormai sei frastornato, steso dall'attesa, dalla calca, dalla tensione, hai fame ma decidi di non andare. Va bene, vai. Vai e torni col piatto vuoto: i dolci sono finiti. Poi qualcuno: “lo assaggi, lo vuole assaggiare?”. Mai fidarsi. Perché nessuno di loro offre nulla che sia commestibile. Mai. Io lo so, il vicino del mio gomito destro no, o forse ha troppa fame e cede; quando si è stanchi e si ha fame si fanno simili sciocchezze. Lo vedi affondare la forchetta piena e poi ingoiare la metà di un piccolo dolce tondo. Per un attimo lo odi “almeno è riuscito a mangiare qualcosa di dolce” ma la smorfia sul viso ti dice che avevi ragione. Vorrebbe fare un fagotto nel suo tovagliolo di stoffa ma non si fa: c'è troppa gente. Prende la rincorsa e butta giù la medicina: ha imparato la lezione.
La cena è finita ma non puoi andare “in pace”, non senza i racconti. E agli anziani piace tanto raccontare ai più giovani di quando pure loro erano giovani. “Ricordo una volta, molti anni fa. Ci chiusero tutti in una stanza ad aspettare la cena. Quando poi all'improvviso aprirono le porte: un buffet! Ero giovane e, baldanzoso, superai tutti e arrivai per primo al tavolo” fa con la mano, indicando un sorpasso a destra. “Da lontano sentivo i più vecchi che dicevano “c'è rimasto ancora qualcosa?”. Pausa per le risate, poi: “hai presente ombre rosse?”.
Forse i più giovani non l'hanno visto, per questo non hanno imparato a fare come i cowboy.

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