martedì 1 novembre 2011

Racconto di un'infanzia sarda



Quando ero piccola aspettavo il 2 di novembre come si aspetta la notte di Natale. Le scuole erano chiuse e ci si riuniva con i compagni di scuola per fare i “morti morti”, una specie di “dolcetto o scherzetto” cattolico. Forse un rigurgito delle invasioni barbariche, forse un modo per esorcizzare la paura della morte; anche se della morte hanno più paura più i grandi che i bambini.

Uscivamo la mattina presto con in mano una busta di plastica (di quelle per la spesa, per intenderci) e, nelle orecchie, la minacce delle madri. “Non vi allontanate, che ci sono troppe macchine!”, diceva la mia dalla finestra della cucina. Non le ubbidivo mai, naturalmente. E lei lo sapeva.

Rastrellavamo ogni casa del quartiere. Tappa fissa erano i campanelli dei parenti e quelli delle signore scorbutiche, per sentirci dire “no, qui sono tutti vivi” e far ridere tutta la classe, il giorno dopo. Quando eravamo fortunati, riuscivamo a tirar su anche mille lire a testa; il più delle volte erano solo noccioline, caramelle e qualche merendina spiaccicata, segno evidente che, per qualcuno, quella dei morti morti era solo una scusa per liberare la dispensa.

A mezzogiorno, con le buste ormai gonfie, tornavo a casa e mostravo il bottino ai miei genitori; come a tutti i bambini un po' cresciuti, di dolci e frutta secca non m'importava nulla: contavo gli spiccioli, sempre troppo pochi, mentre mio padre accendeva il fuoco e metteva a cuocere le castagne. Per due anni di seguito, poi, non ho avuto un bel niente da contare; lo stesso non posso dire dei due ragazzini che mi hanno scippato: le mie sorelle mi prendono ancora in giro, per via di questa storia.






La notte tra il primo e il due di novembre dalle mie parti si usa anche apparecchiare la tavola per i morti; ai miei non è mai piaciuta come tradizione e meno male: se ci sono morti in casa io non ne voglio sapere niente.
Come molti, però, andavamo al cimitero; il giorno dei Santi a Olbia, quello seguente nel paese natio di mio padre. Ci andavamo sempre la domenica ma in giorni come quelli si faceva il giro completo; e ogni anno il giro diventava più lungo. 

Mi annoiavo a morte, e non lo dico per fare dell'ironia; così fissavo mia madre e i suoi gesti, ogni anno uguali: andava verso il rubinetto, riempiva i vasi fino all'orlo e poi si inginocchiava sotto le lapidi; scartava un foglio di giornale e divideva garofani e crisantemi in mazzetti, uno per ogni ospite delle tombe di famiglia.
Mio padre stava in piedi, faceva il segno della croce con il pollice sul viso di sua madre e sussurrava qualcosa: non ho mai capito cosa. A me veniva da ridere, come succede a tutti i bambini quando vedono i genitori diventare seri tutti d'un colpo.

A volte mi chiedevo perché alcuni dormissero in delle ville di marmo; altri tutti appiccicati, come in una casa popolare. 
Quelli che dormivano sotto i cumuli di terra mi facevano paura: una volta, preoccupata, chiesi a mio padre: “Ma non li calpestiamo se ci passiamo vicini?”. Chissà, forse temevo potessero afferrarmi per un piede.

Lo stesso devo aver pensato molti anni dopo, di fronte al tappeto di croci del cimitero di San Lazzaro (Bologna) che vedevo dalla mia finestra. “Fanno più paura i vivi che i morti” mi disse lo zio di un mio amico per tranquillizzarmi. 

Poi anche lui è andato a vedere s'era vero.



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