Uscivamo la mattina
presto con in mano una busta di plastica (di quelle per la spesa, per
intenderci) e, nelle orecchie, la minacce delle madri. “Non
vi allontanate, che ci sono troppe macchine!”, diceva la mia dalla
finestra della cucina. Non le ubbidivo mai, naturalmente. E lei lo
sapeva.
Rastrellavamo ogni casa
del quartiere. Tappa fissa erano i campanelli dei parenti e quelli delle signore scorbutiche, per sentirci dire “no, qui sono tutti vivi” e far ridere tutta la classe, il giorno dopo. Quando eravamo fortunati, riuscivamo a tirar su anche
mille lire a testa; il più delle volte erano solo noccioline,
caramelle e qualche merendina spiaccicata, segno evidente che, per
qualcuno, quella dei morti morti era solo una scusa per liberare la dispensa.
A mezzogiorno, con le
buste ormai gonfie, tornavo a casa e mostravo il bottino ai miei
genitori; come a tutti i bambini un po' cresciuti, di dolci e frutta
secca non m'importava nulla: contavo gli spiccioli, sempre troppo
pochi, mentre mio padre accendeva il fuoco e metteva a cuocere le
castagne. Per due anni di seguito, poi, non ho avuto un bel niente da
contare; lo stesso non posso dire dei due ragazzini che mi hanno
scippato: le mie sorelle mi prendono ancora in giro, per via di
questa storia.
La notte tra il primo e
il due di novembre dalle mie parti si usa anche apparecchiare la
tavola per i morti; ai miei non è mai piaciuta come tradizione e
meno male: se ci sono morti in casa io non ne voglio sapere niente.
Come molti, però,
andavamo al cimitero; il giorno dei Santi a Olbia, quello seguente
nel paese natio di mio padre. Ci andavamo sempre la domenica ma in giorni come quelli si faceva il giro completo; e ogni anno il giro diventava più lungo.
Mi annoiavo a morte, e non lo dico per fare
dell'ironia; così fissavo mia madre e i suoi gesti, ogni anno uguali: andava verso il rubinetto, riempiva i vasi fino all'orlo e
poi si inginocchiava sotto le lapidi; scartava un foglio di giornale
e divideva garofani e crisantemi in mazzetti, uno per ogni ospite
delle tombe di famiglia.
Mio padre stava in piedi,
faceva il segno della croce con il pollice sul viso di sua madre e
sussurrava qualcosa: non ho mai capito cosa. A me veniva da ridere,
come succede a tutti i bambini quando vedono i genitori diventare
seri tutti d'un colpo.
A volte mi chiedevo perché alcuni dormissero in
delle ville di marmo; altri tutti appiccicati, come in una casa
popolare.
Quelli che dormivano sotto i cumuli di terra mi
facevano paura: una volta, preoccupata, chiesi a mio padre: “Ma non
li calpestiamo se ci passiamo vicini?”. Chissà, forse temevo
potessero afferrarmi per un piede.
Lo stesso devo aver
pensato molti anni dopo, di fronte al tappeto di croci del cimitero
di San Lazzaro (Bologna) che vedevo dalla mia finestra. “Fanno più
paura i vivi che i morti” mi disse lo zio di un mio amico per
tranquillizzarmi.
Poi anche lui è andato a vedere s'era vero.
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