giovedì 3 febbraio 2011

Iphone, Ipod, Ipad... I post



Sono in piedi. Mi tengo ben stretta al palo giallo: il conducente dell'autobus sembra piuttosto di fretta. “Devo comprarmi l'amuchina, chissà quanti germi avrò sulle mani”, penso. Mi muovo leggermente seguendo il ritmo della musica che arriva dal mio Ipod, spero nessuno se ne accorga. All'improvviso, il mio corpo sobbalza in avanti e, come il mio, quello di tante altre persone; l'autobus, lanciato in discesa, inchioda: una fila di camion e furgoni blocca in parte il viale che costeggia la Fortezza. Proseguiamo a passo d'uomo così, ancora scossa dalla brusca frenata, alzo lo sguardo dal lettore argentato e guardo dalle porte trasparenti ancora rigate dalla pioggia: gli autisti sono ai loro posti di guida, aspettano di caricare passerelle e stand di Pitti Filati; c'è chi risponde a un sms, chi controlla la posta dal suo Iphone, chi cambia il suo stato su facebook, chi telefona, chi dà un'occhiata al giornale dal suo nuovissimo lettore, chi, come me, ascolta un po' di musica. Ne conto almeno quindici. E lo stesso succede dentro l'autobus: sono tutti soli e quasi tutti fanno qualcosa; solo qualcuno guarda fuori dal finestrino senza gli auricolari, un libro tra le mani, un cellulare all'orecchio: sono i più vecchi di quell'improvvisata compagnia. “Non sarà mica che stiamo escogitando qualsiasi diavoleria pur di non stare soli?”, mi sono chiesta. Non fraintendetemi, ci sono persone che in autobus ci passano una vita e mezzo ed è probabile che quegli autisti fossero lì dal mattino presto e che alle 15.30, quando sono passata, si stessero ormai fracassando i maroni in quelle scatole di latta: alcuni lo fanno per passare il tempo, per ingannare l'attesa, e questo è assodato. Ma tutti gli altri, i ragazzi che vedo in giro con i loro lettori mp3, perché lo fanno? E perché lo faccio anch'io? Perché quando sono sola porto con me l'Ipod ovunque, tranne per andare a buttare la spazzatura (cioè praticamente sotto casa)?


Apro la zip della mia borsa, frugo un bel po' (è esageratamente grande, lo so) ma finalmente lo trovo e lo butto sul letto: dopo non so quanto tempo, oggi uscirò senza Ipod. Attraverso la strada e pedalo verso il parco della Fortezza. Il cielo è limpido e fa quasi caldo. Solo un leggero venticello muove le poche foglie rimaste sugli alberi dei viali; una la sento cadere sul mio cappotto: è croccante e color del mogano. All'incrocio, una ragazza con gli occhi a mandorla mi chiede in un inglese perfetto dove si trovi il supermercato più vicino, le rispondo con il mio solito “I don't know” e proseguo. “Avrei potuto sforzarmi un pochino di più, dirle che la coop non è certo vicina ma che avrebbe comunque potuto raggiungerla a piedi”, “ma no, è troppo lontana da qui”, “ma perché mi vergogno sempre di parlare in inglese?”, penso mentre pronuncio la frase che avrei potuto dirle. “Vedi che lo sapevi!”, “Vabè, alla prossima”. Il semaforo è rosso così scendo dalla mia bici e aspetto. Accanto a me un ragazzo sulla trentina indossa un auricolare e parla ad alta voce: stasera andrà a una cena di lavoro, è nervoso così ha chiamato Laura (credo sia la sua ragazza, la chiama “amore”) per qualche consiglio. Un uomo al volante suona ripetutamente il claxon: qualcuno si dev'essere attardato allo stop. No, è una ragazza in bicicletta che è sbucata in contromano da un angolo, si scusa e abbassa gli occhi. Finalmente scatta il verde, risalgo sul sellino e proseguo fino al prossimo semaforo. “Per fortuna l'onda verde esiste”. Arrivo in Piazza dell'Indipendenza: alcuni bambini giocano a pallone e sfottono il più piccolo perché s'è fatto fare gol, si chiama Maicol. Un fattorino dell'hotel Andrea si lamenta perché hanno posteggiato proprio di fronte all'ingresso, vorrebbe chiamare la polizia municipale ma se poi quella macchina fosse di un cliente? Meglio aspettare. Sento le ruote della mia bici affondare leggermente sulla ghiaia, qua e là c'è ancora qualche pozzanghera. Pochi metri prima della fermata dell'1 una donna carica di buste cerca di attirare l'attenzione del conducente dell'autobus, ha una voce squillante e la r moscia: è inutile, dovrà aspettare un quarto d'ora ed è già in ritardo. Finalmente posso pedalare un po', i semafori sono finiti. Percorro il lungo rettilineo che si affaccia su piazza San Marco, ho il respiro affannoso: la mia bici non ha marce e mi fa sentire la minima pendenza dell'asfalto. Leggo sotto la croce verde di una farmacia: sono le 15.30 e ci sono 15 gradi. “Devo sbrigarmi se non voglio arrivare tardi”, “chissà se la signora della fermata è ancora lì che aspetta”, “magari ha preso un altro autobus”. Me la son presa comoda, di solito è il ritmo della musica a determinare la mia pedalata ma, oggi che non c'è, le mie gambe sembrano molli, quasi contagiate dalla calma che le circonda. Un gruppo di ragazzotte americane in shorts e infradito chiacchiera ma, tranne “Oh, my God” e qualche altra cosa, non capisco quasi nulla di ciò che dicono. “I must refresh my english!”, “dai, è un inizio”, sorrido. Sbuco in via Cavour: sono passata col rosso e per poco non metto sotto un signore col cappello. Gli chiedo scusa ma sento che borbotta qualcosa. Già da diversi metri prima l'aria è impregnata dell'unto del vicino Mc Donald's. Mentre aspetto all'ultimo semaforo, una scolaresca sta giusto uscendo dal locale: credo abbiano più o meno l'età di mio nipote; no, forse è una terza media. Leggermente staccati dal gruppo, due ragazzini sembra stiano tramando qualcosa, chiamano “rinforzi”: Lorenzo, poi Franco e, infine, Andrea. Cercano di trattenere la risata portandosi le mani alla bocca ma non ci riescono, vengono scoperti. Scatta il verde e mi avvio con tutta fretta al mio appuntamento. Sotto la cupola del Brunelleschi regna il silenzio: riesco quasi a distinguere le singole voci dei passanti.

Mentre scrivo ascolto “Just one of those things” di Frank Sinatra. La musica non mi dà solo il ritmo della pedalata ma mi fa scrivere anche più velocemente. Metto in pausa: dalla mia finestra aperta sento in lontananza il rumore continuo delle auto e lo sferragliare del treno che arriva alla stazione.

Dunque, qual è la risposta alla mia domanda?








Non siamo più abituati a stare soli, veramente soli, questo è innegabile. Il silenzio ci spaventa perché, volenti o nolenti, ci porta a pensare, a fare i conti con noi stessi. Io ho imparato a star sola con il tempo, grazie a qualcuno a cui la solitudine piace parecchio. Ma oggi, mentre pedalavo in mezzo alla città, ho pensato a un'altra cosa: quanto mi sono persa finora?

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