Appartengo a quella categoria di persone che non è mai contenta di quello che ha. Ed è una gran seccatura. Lavoro? E allora via a pensare che non ho mai tempo da dedicare a me stessa, per leggere, uscire o anche stare chiusa in casa semplicemente a far nulla. Sto a casa qualche giorno di troppo? Vedi, mi gira sempre male: ho già 27 anni, sono precaria e lo rimarrò a vita. Viene da ridere, eh? Eppure è contro questa eterna e straziante sensazione di insoddisfazione che devo lottare quasi ogni giorno: sapere che, nel preciso istante in cui sto facendo una cosa, quello che vorrei sarebbe esattamente il contrario.
Non si tratta di desiderare una vita migliore, essere che ne so una star del cinema o un premio Nobel per la Fisica, ma semplicemente di avere una vita diversa. Anche oggi mi son svegliata così. E il ciclo non c'entra. Me lo dico ma non so se ci credo per davvero. Mi scoccia ammetterlo perché non mi va l'idea di essere un “ormone ambulante” ma è così: nella vita di una donna il ciclo c'entra quasi sempre; se siamo malinconiche, nervose o in un “momento zen” al cinquanta per cento il motivo è uno solo (e mi sto pure tenendo bassa!). Quella però è una costante che ci accomuna tutte, almeno fino a una certa età, e non è che tutte le donne sono insoddisfatte.
Voi, per esempio, lo siete? Se devo far fede a quel che vedo dal di fuori, direi proprio di no. Da lì sembrate tutte felici. E questa cosa un po' mi da sui nervi. Invidia? Forse un pochino, sì. Non è bello e neanche politically correct spiattellarlo così ma è dannatamente vero. Ditemi che non è capitato anche a voi di vedere qualcuno con “quel” sorriso sulle labbra e di pensare “ma che c'avrà mai da ridere questo?”. Perché se da bravi bambini la prima reazione a una bella notizia (che non ci riguarda, è ovvio) è essere felici come delle pasque, la seconda – inevitabilmente – è porsi “quella” domanda: e a me quando capita finalmente una bella botta di culo? È normale e pure sacrosanto per quanto cerchiamo di nascondere ben bene questo lato egoista/bastardo che è in noi.
Insomma, si può essere buoni e cari ma si finisce sempre col pensare a se stessi. Non a se stessi e basta, però, ma in rapporto agli altri. Quello che ci distrugge è il confronto, la netta sensazione che la nostra vita sia sempre e comunque un po' più bruttina, noiosa, difficile di quella del nostro dirimpettaio. Anche nel modo di affrontarla ne usciamo con le ossa rotte: gli altri col piglio sicuro di chi è convinto che la propria vita andrà in una direzione e solo in quella, crollasse il mondo; noi così incerti e traballanti a volte che basterebbe un soffio di vento per farci perdere ogni certezza, tranne una: che l'erba del vicino è e sarà sempre più verde della nostra.
Che fare allora, badare al nostro orticello senza considerare che, oltre la staccionata, gli altri hanno un ranch? Sapete che vi dico? No. Primo perché solo dando una sbirciata al giardino altrui ci renderemo conto di un'altra cosa sacrosanta, ovvero che gli altri ci vedono esattamente come noi guardiamo loro: più fortunati, più forti, più felici insomma. Secondo, perché magari proprio guardando quel sorriso ci verrà in mente che forse non stiamo facendo proprio tutto quello che potremmo per ridere di gusto anche noi; dopotutto la sfiga è come la fortuna: a volte c'entra ma, nella maggior parte dei casi, siamo noi a far succedere le cose. Terzo perché sparlacchiare ogni tanto fa proprio bene al cuore, e questo bisogna dirlo.
Morale della favola? C'è sempre qualcosa che vorremmo cambiare di come siamo, della vita che facciamo: avere più soldi, viaggiare di più, fare un lavoro diverso, avere più tempo, vivere altrove o, semplicemente, essere meno pretenziosi. Io vorrei tutte queste cose ma, soprattutto, l'ultima; accontentarmi di quello che ho e se poi arriva qualcos'altro bene, altrimenti pace. Ma il giochino non mi riesce, quasi mai almeno. E mi rode da morire perché so che se son così non è solo colpa mia; se sono così la colpa è anche della società che mi ha tirato su inculcandomi questa sorta di dogma: volere di più. Perché nella vita non ci si può ridurre a fare che ne so, l'elettricista o il cameriere; ecco i bei verbi che usiamo quando ci riferiamo a una persona che non fa un mestiere all'altezza del suo curriculum vitae: ridursi, accontentarsi. Come se si potesse vivere bene solo da business manager, notaio, direttore di banca. Non credo sia per via soldi (o almeno, non solo ecco), che si punti in alto per godersi i piaceri della vita senza l'incubo della fine del mese. Ma più che altro sia una questione di prestigio, di quell'aura di potere e autorevolezza che scatta solo a pronunciare i nomi di queste fantomatiche carriere. Insomma, sei fai il fashion editor, il blogger, lo scrittore sei un fico ed è questo quello che conta.
Solo qualcuno pensa che siano i lavori manuali quelli che avvicinano di più alla felicità; forse perché quello che fai oltre che vederlo lo puoi anche toccare. Anche io la penso così e se rinasco voglio fare il contadino. Il mio orticello potrà pure essere più piccolo di quello degli altri ma, in questo modo, sarà senz'altro il più curato.
Ecco, ci sono ricascata.
Vero. In questo post è tutto vero. E non solo l'analisi di quanto accade dentro di noi e all'esterno, nella nostra società, è azzeccata, ma ci aiuta anche a ricordare che non capita solo a noi di "sentirci in quel modo", ma a tutti, a prescindere dal grado di sicurezza esteriore, e che la causa di questa sensazione non è da ricercare soltanto in noi stessi.
RispondiEliminaP.s Grande idea quella dell'orticello! Possiamo coltivarlo insieme? Sarà il più bello di tutti!... Ops!!! :-P
Michela